Spirito
Eros
Dal cassetto

Gli incontri con Fabrizio De André

Nel novanta avevo diciannove anni, ero magro come un hippy con i capelli lunghi alle spalle la prima volta che insieme a una mora fidanzata, andai a Tempio Pausania per incontrare Fabrizio De André. Occorreva arrivare nella zona industriale della piccola città, lasciarla alle proprie spalle, e cominciare a percorrere, se ricordo bene, via Bachisio: una sterrata tra il verde selvatico e qualche vacca. Dopo due tre chilometri un cartello di legno indicava “Agnata”, la tenuta dove De André insieme alla bellissima Dori viveva, facendo il contadino.

Ne ero e ne sono innamorato. Di Fabrizio. Mi commuove molto di lui.

L’eleganza dei modi, la voce profetica, la palpebra offesa, le parole che arrivano da un luogo lontano e profondo, forse dall’acqua o dalla terra, di certo da qualcosa che ha a che fare con il Silenzio. Tornai qualche anno dopo, e dopo ancora, e poi lo incontrai in giro mille volte per concerti.

L’undici gennaio del novantanove per l’ultimo saluto, partii da solo alle prime luci dell’alba con una vecchia fiat malconcia, così d’arrivare tra i primi nella Basilica di Santa Maria Assunta, sulla Collina di Carignano, a Genova. Perché gli volevo bene, gli ero grato.

Di Fabrizio De André si conosce molto, si sa che si dichiarava anarchico, che amava la natura e l’astrologia, lo dicono tutti. Si sa delle scorribande giovanili tra prostitute e transessuali con l’amico Paolo Villaggio. Si ricordano le date del suo rapimento. Si sa anche, che ha bevuto molto whisky, e tanti ricordano addirittura la marca delle sigarette che fumava. E ovviamente tutti sanno, che ha cantato di puttane e magnacci, di delinquenti e assassini, di omosessuali discriminati, e di emarginazione. Si sa, appunto, lo dicono tutti.

C’è però un’altra persona, la sola di cui Fabrizio abbia cantato per tutta la vita.

Una persona che l’ha disturbato come una scheggia sotto il tallone, che l’ha accompagnato come un abbraccio morbido. Non ha potuto fare un passo, un disco, senza ricordarsi di quella persona. Gli ha offerto decine di canzoni. Gli ha regalato centinaia di versi. Alla vicenda umana di questa persona, gli ha dedicato un disco intero e, io credo, gran parte del suo cuore. Fino all’ultima canzone, fino a quella “goccia di splendore consegnata alla morte”.
Gesù.

È soprattutto dal rapporto con questa profonda spiritualità, tutta immelmata di carne, che nasceva la meravigliosa arte di Fabrizio De Andrè.